top of page

Insubordinazione del lavoratore, sanzione da valutare in due fasi

Insubordinazione

L’offesa grave rivolta al proprio superiore gerarchico può configurarsi come una giusta causa di licenziamento, anche se si tratta di un solo episodio. Lo ha ribadito la Corte di cassazione nell’ordinanza 21103 del 24 luglio 2025. La pronuncia si inserisce nella consolidata nozione di giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 del Codice civile, richiamata dall’articolo 5 della legge 604/1966, che impone al datore di lavoro di dimostrare la «grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro», in particolare del vincolo fiduciario. Al centro del dibattito resta l’insubordinazione del lavoratore, declinata nelle forme di insubordinazione lieve e insubordinazione grave, secondo la graduazione prevista dai Ccnl, e l’incidenza della recidiva sulla legittimità del recesso datoriale. La disciplina di base fa capo all’articolo 2104 del Codice civile, che impone al prestatore di lavoro di osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore, e all’articolo 7 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), che stabilisce le regole generali e la necessaria preventiva contestazione dell’addebito. Il Ccnl di categoria, in genere, distingue fra: l’insubordinazione lieve, punita con sanzioni conservative (ammenda, sospensione breve); l’insubordinazione, sanzionata tramite il licenziamento con preavviso; l’insubordinazione grave, che giustifica il licenziamento senza preavviso (giusta causa). La giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che la tipizzazione contrattuale è «esemplificativa e non vincolante» ai fini della nozione legale di giusta causa, ma costituisce uno dei parametri per valutare la gravità e la proporzionalità del licenziamento (Cassazione, sentenza 28492/2018). In particolare, l’insubordinazione grave si configura quando all’inosservanza dell’ordine si accompagnano modalità comportamentali denigratorie o minacciose tali da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario (Cassazione, ordinanza 6398/2025). L’insubordinazione lieve, al contrario, è il mero rifiuto di eseguire un ordine legittimo senza eccessi formali o verbali lesivi. Sul tema della recidiva, spesso il Ccnl indica l’ipotesi di licenziamento per «recidiva nelle mancanze» specifiche, ma la Cassazione ha chiarito che anche in presenza di recidiva il giudice conserva il potere– dovere di valutare l’effettiva gravità degli addebiti e la proporzionalità del recesso (Cassazione, 28417/2017 e 15566/2019). L’ordinanza 21103/2025, confermando i principi sopra richiamati, delinea un test in due fasi per l’insubordinazione: la cosiddetta fase di sussunzione: si verifica se il comportamento rientra nell’ambito contrattuale dell’insubordinazione lieve o grave. Ad esempio, il rifiuto formale di eseguire un ordine può restare nella sfera della lieve insubordinazione (sanzione conservativa), mentre un rifiuto accompagnato da insulti o pubblica contestazione del potere direttivo si qualifica come grave insubordinazione (Cassazione, 8826/2017); la fase di valutazione di gravità e proporzionalità: il giudice di merito accerta se l’accaduto, pur rientrando nella definizione contrattuale, ha i caratteri di gravità tali da pregiudicare la prosecuzione del rapporto. Qui rilevano la natura del rapporto, il grado di affidamento richiesto, l’intensità dell’elemento volitivo e le circostanze del fatto (Cassazione, 12789/2022). Quanto alla recidiva, l’ordinanza evidenzia che essa non determina automaticamente il licenziamento senza preavviso se i fatti ripetuti sono di lieve entità o se la scala sanzionatoria contrattuale non prevede l’espulsione per quelle specifiche mancanze. Tuttavia, la recidiva costituisce un “indice accentuativo” della gravità, purché il giudice valuti se la reiterazione abbia effettivamente aggravato il nocumento alla fiducia aziendale (Cassazione, 26770/2024). La recidiva, di per sé, non sostituisce il giudizio di gravità, ma ne può rafforzare l’esito quando si traduca in reiterazioni significative del pregiudizio al vincolo fiduciario. In questo modo, si garantisce un equilibrio fra disciplina collettiva e clausola generale di giusta causa ex articolo 2119 del Codice civile, preservando la discrezionalità del giudice di merito.

I CASI SPECIFICI

Integrano la giusta causa

di licenziamento Fra i comportamenti del lavoratore che per la giurisprudenza di legittimità integrano la giusta causa di licenziamento, ci sono il ripetuto e ingiustificato rifiuto di recarsi in trasferta (se l’azienda opera su scala internazionale e la disponibilità alle trasferte è un elemento essenziale della prestazione (Cassazione, sent. 6896 del 20 marzo 2018), o i post su Facebook connotati da particolare astio ed acrimonia, con l’uso di un linguaggio scurrile di rara volgarità, rivelatore dell’intenzione di offendere e umiliare a livello personale e professionale i superiori gerarchici (Cassazione, ordinanze 2058 del 29 gennaio 2025) Non integrano la giusta causa Espressioni irriguardose (ma non minacciose), che valutate nel contesto si devono ritenere effetto di una reazione emotiva e istintiva ai rimproveri ricevuti (Cassazione, sentenza 5730 del 12 marzo 2014) e frasi che, pur se riprovevoli e lesive dell’onore e del destinatario, sono scaturite in un contesto di forte contrapposizione e sono frutto di uno scarso controllo delle proprie capacità di comunicazione (Cassazione, sentenze 14177 del 23 giugno 2014)


Commenti

Valutazione 0 stelle su 5.
Non ci sono ancora valutazioni

Aggiungi una valutazione
bottom of page